domenica 18 ottobre 2015

Cartesio




Cartesio segna la svolta tra Rinascimento ed età Moderna, i temi propri del Rinascimento diventano, in Cartesio, termini di una nuova problematica che vede coinvolti l'uomo come soggetto e il mondo oggettivo. Egli è anche fondatore del razionalismo, corrente filosofica che vede nella ragione il fondamento di verità e lo strumento per elaborare una nuova visione del mondo



Il metodo

Il suo problema nasce dalla sensazione di disorientamento che egli prova una volta uscito dalla scuola gesuitica di La Fleche. Capisce che tutte le conoscenze assimilate sono inutili in assenza di un criterio che permetta di distinguere il vero dal falso. L’orientamento, il criterio, il metodo che egli ricerca è sia teoretico che pratico: deve essere un guida per l’uomo nel mondo, ossia deve condurre a una filosofia non più solo speculativa, ma pratica, che consenta all’uomo di rendersi padrone della natura. Questa forma di sapere, secondo Cartesio, potrebbe condurre gli uomini ad essere esenti da svariate malattie del corpo e dello spirito, e persino dalla vecchiaia. Il metodo deve essere un criterio unico e semplice di orientamento che serva all'uomo in ogni campo teoretico e pratico e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell’uomo nel mondo. Per Cartesio la saggezza umana è una sola qualsiasi sia il campo a cui essa si applica, e uno è l’uomo nelle sua varie attività. Nel formulare il metodo egli si avvale della matematica, supponendo che tutto ciò che l’uomo conosce segua nello stesso modo: la matematica quindi possiede già il metodo, ma non basta solo prendere coscienza di questo metodo, ma si tratta anche di giustificarlo e di giustificarne la sua universale applicazione, riconducendolo all’uomo come soggetto pensante o ragione. Il compito di Cartesio inizia con la giustificazione (o fondazione) delle regole metodiche, perché solo essa può consentire la loro applicazione a tutti i campi del sapere. Cartesio doveva quindi: 

1) Formulare le regole del metodo tenendo presente la loro radice matematica; 
2) Giustificare metafisicamente il loro valore assoluto e universale; 
3) Dimostrare l’utilità del metodo nella varie branche del sapere.

Nella II parte del Discorso formula le quattro regole:
1) Evidenza: non accettare mai per vero ciò che non lo è con evidenza, e non presumere nei propri giudizi ciò che non si desume in maniera chiara e distinta, cioè accogliere solo che sia impossibile da mettere in dubbio.      
2) Analisi: scindere le difficoltà da esaminare in più parti possibili, in modo che sia sempre più semplice risolverle.
3) Sintesi: ordinare i propri pensieri dal più semplice ai più complessi, supponendo un ordine anche tra gli oggetti apparentemente disarmonici tra loro.
4) Enumerazione e Revisione: enumerare tutti gli elementi dell’analisi, e rivedere tutti i passaggi della sintesi, per essere sicuri di non omettere nulla.
La matematizzazione di queste regole, però, non ne offre la loro giustificazione, perché esse potrebbero essere valide solamente in campo matematico. Cartesio doveva ancora ricondurle all’uomo come soggettività o ragione.




Il dubbio e il cogito ergo sum

Trovare il fondamento del metodo è possibile solo con una critica radicale di tutto il sapere già dato: bisogna dubitare di tutto e considerare falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se si giungerà a un principio su cui non è possibile dubitare, allora esso si dovrà assumere come fondamento di tutte le altre conoscenze, fondamento su cui si giustificherà il metodo Cartesiano (da cui il nome di dubbio metodico).
Cartesio crede che sia possibile dubitare su qualsiasi forma di conoscenza, e perciò lo si deve fare riguardo tutte le conoscenze sensibili (dato che i sensi talvolta ci ingannano lo potrebbero fare sempre: basti pensare che durante i sogni si hanno conoscenze verosimili che non per questo sono vere) e persino sulla conoscenza matematica, la cui certezza può essere illusoria. Finché non si sa nulla sulla nostra origine si può sempre supporre che siamo stati creati da un genio malvagio che ci fa credere per chiaro ed evidente ciò che è falso a assurdo. Così il dubbio si estende a ogni cosa e diventa assoluto e universale: il dubbio iperbolico.
Ma è proprio in questo dubbio che nasce una prima certezza: per ammettere di poter essere ingannato io debbo esistere, cioè devo essere qualcosa, e non nulla. La proposizione io esisto è quindi vera, perché è giustificata dal dubbio: solo chi esiste può dubitare. Ma siccome non posso dire di esistere come corpo (perché non sono certo sull'esistenza dei corpi), non posso che esistere perlomeno come una cosa che dubita, cioè che pensa. La certezza della mia esistenza concerne le determinazioni del mio pensiero, come prima cosa il pensare in sé. Quindi "io esisto" equivale a "io sono un soggetto pensante": spirito, intelletto o ragione. La mia esistenza come soggetto pensante non può esser messa in dubbio: si può dubitare che quella cosa a cui io sto pensando esista, ma non si può dubitare che esista io, che penso a quella cosa. Su questa certezza si deve fondare ogni altra conoscenza.



Dio giustificazione metafisica delle certezze umane

Il cogito mi rende sicuro sulla mia esistenza, ma non sulle altre esistenze ed evidenze, sulle quali è sempre valida l’ipotesi del genio maligno. Io sono un essere pensante che ha idee (le idee sono intese come l’oggetto del pensiero), e sono sicuro che esse esistono perché fanno parte di me, ma non posso sapere se esse hanno anche un riscontro nella realtà: non so se alle mie idee corrisponde qualcosa nella realtà. Cartesio divide le idee in tre categorie:

  • le idee innate, che mi sembrano innate in me e alle quali appartiene la capacità di pensare e di avere idee;
  • le idee avventizie, che mi sembra vengano da fuori di me, e comprendono le idee delle cose naturali; 
  • le idee fattizie, formate o trovate da me stesso, chimeriche o inventate. 

Per scoprire se a queste idee corrisponde qualcosa nella realtà bisogna chiedersi la loro causa.Le idee sulla natura o sull'uomo possono esser prodotte da me, perché non contengono nulla di perfetto che non abbia anche io. Ma per quanto riguarda l’idea di Dio, essa non può venir da me, perché io sono privo delle perfezione che quella idea rappresenta (e la causa di una idea deve sempre avere il suo stesso grado di perfezione): la causa di un’idea di sostanza infinita deve essere una sostanza infinita, ammessa come esistente. Questa è la prima prova dell’esistenza di Dio.
Secondo: io sono finito ed imperfetto, infatti dubito, ma se fossi io stesso la causa di me stesso mi sarei dato tutte le perfezioni che reputavo necessarie, contemplate nell’idea di Dio. È logico che non può avermi creato che Dio, il quale mi ha creato finito pur dandomi l’idea dell’infinito.
La terza prova dell’esistenza di Dio è una dimostrazione ontologica: non è possibile concepire Dio come Essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, essa è una delle sue perfezioni necessarie. L’esistenza di Dio è richiesta dalla durata della mia esistenza: tutto ciò che non ha causa in se stesso finirebbe di esistere se cessasse di esistere la causa che lo crea continuamente: la creazione è continua, quindi Dio esiste.
In Dio trova la sua garanzia l’evidenza. Dio non mi può ingannare; il giudizio, se ben adoperato, non può indurmi in errore; quindi tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce.
Dio è il terzo termine, che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze.
L'errore dipende dalla compenetrazione di intelletto e volontà. L’intelletto è limitato (difatti ne possiamo pensare ad uno più esteso: quello di Dio), la volontà umana invece è illimitata e consiste nell'operare delle scelte sia sulle cose che l’intelletto vede in modo chiaro e distinto, sia sulle cose non abbastanza chiare o distinte. Quando la volontà agisce sulle cose poco chiare, potrebbe azzeccare per caso, o potrebbe affermare ciò che non è vero. L'errore quindi non ci sarebbe se io dessi il mio giudizio solo sulle cose chiare e distinte, esso dipende dunque dal libero arbitrio che Dio ha fornito all’uomo e si può evitare attenendosi alla prima regola del metodo.
L’evidenza, avendo ottenuta ogni garanzia, consente di eliminare il dubbio che è stato avanzato in principio sulla realtà delle cose corporee. L’idea delle cose corporee fuori di me non può essere ingannevole, queste cose corporee corrispondenti alle mie idee quindi esistono.



Il dualismo cartesiano

Accanto alla sostanza pensante se ne deve ammettere una corporea, estesa, che non possiede tutte le qualità che noi percepiamo di essa. Tutte le sue determinazioni quantitative sono sicuramente sue qualità reali, ma il colore, il sapore, l’odore ecc. non esistono nella realtà così come le percepiamo noi. È cosi che Cartesio divide la realtà in due zone distinte: 

  • res cogitans, inestesa, consapevole e libera; 
  • res extensa, spaziale, inconsapevole e determinata. 


Ma spiegare il rapporto scambievole tra queste due sostanze, ossia la relazione tra anima e corpo, non è facile per il Filosofo. Egli si riconduce sempre alla ghiandola pineale, che essendo l’unica zona del cervello a non essere doppia, potrebbe riunire la totalità delle sensazione che provengono dagli organi di senso, che sono tutti doppi. Ma questa soluzione è pseudo-filosofica e non risolve il problema.